Le frizioni commerciali tra Washington e Bruxelles si trasformano in una minaccia concreta per l’economia italiana. Se l’amministrazione Trump dovesse mantenere gli attuali dazi, le imprese italiane rischierebbero un danno da 3,5 miliardi di euro in export mancato.
Nel caso in cui le tariffe venissero portate al 20%, le perdite potrebbero impennarsi fino a 12 miliardi. Un colpo al cuore per un Paese che basa gran parte della sua forza economica sulle esportazioni, specialmente verso gli Stati Uniti, che nel 2024 hanno importato prodotti italiani per oltre 64 miliardi di euro.
Secondo le analisi condotte dalla Cgia di Mestre su dati Ocse, tutto ruota attorno a due interrogativi cruciali: i consumatori e le imprese americane saranno disposti a pagare di più per i beni italiani? E le aziende del Belpaese riusciranno ad assorbire l’incremento dei costi senza scaricarli sui clienti?
La Banca d’Italia fa notare che il 92% dell’export italiano verso gli USA è composto da beni di fascia medio-alta, destinati a un pubblico con elevato potere d’acquisto e dunque, teoricamente, meno sensibile ai rincari.
Tuttavia, anche in presenza di una flessione della domanda, le imprese potrebbero compensare attraverso una contrazione dei margini: l’export verso gli Stati Uniti rappresenta il 5,5% del giro d’affari complessivo delle aziende italiane che vendono all’estero, con un margine operativo lordo medio attorno al 10%. Insomma, il sistema potrebbe tenere, ma non senza danni.
Le aree più esposte all’effetto domino delle nuove tariffe sono quelle meno diversificate sul piano dell’export. Il Mezzogiorno, in particolare, mostra forti vulnerabilità: la Sardegna, con un indice di specializzazione del 95,6%, dipende quasi interamente dalla raffinazione del greggio.
Subito dopo viene il Molise con l’86,9%, legato a settori come la chimica, la plastica e l’automotive. La Sicilia non è messa meglio, fermandosi all’85%. Ogni nuova imposizione doganale su uno specifico settore può quindi compromettere in modo grave l’accesso ai mercati internazionali per queste regioni.
Diversa la situazione in Puglia, che con un indice di diversificazione pari al 49,8% si posiziona tra le realtà più equilibrate d’Italia per struttura dell’export. La varietà del tessuto produttivo pugliese consente alla regione di affrontare meglio eventuali scossoni derivanti da mutamenti della politica commerciale americana.
A livello nazionale, le filiere più esposte sono quelle legate a farmaceutica, chimica, automotive, nautica e macchinari generici, che costituiscono oltre il 40% dell’export italiano verso gli Stati Uniti. Pur essendo circa 44mila le imprese direttamente coinvolte, l’effetto a catena colpisce anche l’indotto, spesso invisibile nelle rilevazioni ufficiali, ma economicamente rilevante.
In attesa di comprendere quale direzione prenderanno le scelte commerciali statunitensi, l’Italia deve prepararsi a ogni evenienza: per alcune aree del Paese il rischio è quello di una crisi profonda, mentre per altre potrebbe essere l’occasione per dimostrare la forza di una strategia economica fondata sulla diversificazione e l’equilibrio.
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